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Il passo che cerchi.

In Senza Categoria on Maggio 7, 2012 at 8:14 am

“Il passo che cerchi” e’ un fotolibro, scritto e fotografato da Carlo Pizzati, a mio modo di vedere, un genio.

Alcuni di voi lo ricorderanno come presentatore di Omnibus, altri come inviato di Repubblica negli Stati Uniti.

Io non ho mai creduto che la vera missione di Carlo fosse fare il giornalista, Carlo e’ uno scrittore.

E’ uno scrittore che ha la capacita’ di farti sognare, tremare, ridere e piangere all’interno di una stessa pagina.

“Il passo che cerchi” e’ una serie di racconti che dialogano con le immagini, le parole cercano il loro intimo significato fra le istantanee, le immagini compiono il percorso inverso, cercando di rubare le parole allo scritto.

Il fotolibro e’ stato presentato, con mia somma emozione, assieme a Patrizia Laquidara, voce pazzesca, cantante

di un’altra dimensione, che mi ha fatto venire la pelle d’oca senza l’ausilio di strumenti, solo un’ugola che ti fa’ viaggiare fra il mare in tempesta, fra il barrio di un borgo catalano, fra la nostalgia che puo’ provare un esiliato.

Patrizia non si limita a cantare, alcune strofe le modula senza suoni, solo con il movimento delle labbra, per poi

freddarti sostenedo la tesi che l’assenza della voce, il silenzio in mezzo a un brano, una pagina bianca, sono l’essenza finale di un lavoro lungo anni, a volte di tutta una vita.

Per non togliervi il gusto di leggerlo, mi limito a un paio di racconti:

1)Prendendo spunto dalla successione di Fibonacci, Carlo riesce a scrivere un racconto diviso in parti composte dall’esatto numero di parole che prevede la successione medesima, partendo all’inverso, cosi’ da creare il primo brano con 89 vocaboli, per finire con l’ultimo che ne contiene una sola, come vi preannunciavo, un genio.

2)La conversazione fra Peter Lynds, un fisico, e Zenone, che discutono sull’assenza del tempo e dello spazio, ognuno

sostiene la propria tesi, e il dialogo si svolge mentre stanno precipitando nel vuoto sbalzati fuori da un aereo, ed entrambi sono convinti che non si sfracelleranno mai proprio per le loro convinzioni spazio temporali.

Era da un sacco di tempo che non mi emozionavo cosi’, Carlo e Patrizia sono riusciti a farmi viaggiare senza l’ausilio di sostanze psicotropiche, a ipnotizzarmi senza l’ausilio di uno strizzacervelli, e quando hanno finito ero sudato come

se avessi compiuto il giro del mondo a piedi.

Notevole.

E giusto per non farci mancare nulla, vi trascrivo l’incipit che potrete trovare anche sul suo sito, che vi invito a consultare, cosi’ ve lo vedete pure, un figo della madonna (a detta di tutte le donne presenti alla serata):

“Un giorno, su un marciapiede vicino a Washington Square

vide dei sacchetti di spazzatura che si muovevano.

Un topo, penso’.

Poi noto’ un braccio nero.

Un uomo.

Si muoveva.

Ma erano in due e si muovevano lentamente, uno sopra l’altro.”

Eh?

Vi chiedo, secondo voi cosa stavano facendo?

P.S.
La serata e’ stata organizzata, come sempre, dal compagno Martinez che con il suo network Guanxinet non perde occasione di farmi godere di eventi straordinari.

Lo ringrazio di cuore.

Tacheles, fine di un sogno, anzi no.

In Senza Categoria on aprile 2, 2012 at 9:04 am

“Sono affranto, deluso, incredulo, atterrito, lacrimante.

Mi giunge una telefonata:

“Hai sentito?

Stanno sgomberando il Tacheles”.

Non ci do’ molto peso, negli ultimi dieci anni e’ successo un sacco di volte.

Questa volta no.

Questa volta hanno evacuato, sequestrato e sprangato il Tacheles.

Per chi non lo sapesse, e non solo perche’ lo scrivo io, il Tacheles e’ il centro di aggregazione artistica libera
piu’ visitato in Europa, e ha sede in Berlino, dove da anni risulta essere la terza meta dei turisti
provenienti dall’intero globo.

Non l’ha sgombrato la polizei, ma 100 agenti privati pagati dalla banca che risulta essere proprietaria

dei muri, i quali si sono permessi di sequestrare anche le opere d’arte presenti all’interno.

Uno su tutti, Alexandr Rodin, artista che vi invito ad ammirare in rete,

bielorusso contrario al regime del boia di Minsk,

gia’ esposto a New York e internazionalmente riconosciuto come

creatore della pittura polisemantica,

ebbene,

pure lui, cacciato giu’ in strada a suon di spintoni dalle guardie di nero vestite.

E le sua opere, che piu’ o meno sono grandi 5mt per lato, letteralmente
rovinate durante lo spostamento nella banca che dice di volerle mettere all’asta.

Chi non e’ mai stato al Tacheles non puo’ capire il mio dolore acuto.

Ho un coltello che mi perfora le meningi da parte a parte.

Il Tacheles nasce prima della caduta del muro, quando oranienburgerstrasse (la via che lo ospita)
era abbandonata a se stessa, lo stabile era stato per anni il word trade center dell’est europa,
poi i denari finirono e il palazzo venne abbandonato.

Sospettando il baratro socioeconomico che da li’ a poco sarebbe accaduto,
e avendo constatato la fine della guerra fredda,
l’allora borgomastro di Berlino ebbe un’idea rivoluzionaria.

Emano’ un provvedimento che consentiva a qualsiasi giovane in eta’ di leva,
che era di 24 mesi, di poter essere esonerato dal servizio militare (all’epoca in DDR una cosa impensabile),
con l’accordo di lavorare gratis per due anni presso l’area di orianenburgerstrasse (centralissima)

cosi’ da poter far rinascere la zona.

Nell’arco di una settimana si presentarono a centinaia.

Lavorarono sodo.

Il quartiere rifiori’.

Il Tacheles divenne la loro casa, il loro studio, la loro vita.

Se non ci siete stati non potete capire.

Pittori, scultori, musici, che vivono, mangiano e creano arte tutti assieme,

tutti nello stesso posto, e nonostante cio’ tutti con una individualita’ artistica degna dell’ultimo Van Gogh.

Non nego di aver pensato per molto tempo di trasferirmi li’,
a vivere di pane, acqua e dipinti, sarebbe stato l’avverarsi di un sogno.

Oggi il mio sogno e’ morto, kaputt.

Cinque piani di arte pura, un piano terra di installazioni indimenticabili,

persone con lo sguardo per bene, l’amicizia che nasce all’istante,

la ricerca di nuove forme di comunicazione, il total selfmade,

la storia incompiuta della generazione che e’ uscita con le ossa rotte dalla riunificazione,
spazi espositivi che hanno ospitato i piu’ noti artisti
di fama mondiale.

E tu potevi usufruire di tutto questo GRATIS.

Ah, quasi scordavo un infimo particolare,

al posto del Tacheles verra’ costruito un centro commerciale.

Sono a pezzi.”

E questo e’ quello che avevo scritto piu’ di una settimana fa’.
Poi e’ successo l’ennesimo miracolo, perche’ in questo mondo
esistono ancora le persone di buon senso.

“Il Tacheles ha riaperto.
E’ successo sabato, il giorno dopo che un giudice ha decretato illegittima la chiusura e lo sgombero della galleria d’arte per problemi prima di tutto di forma”

Ecco, bastardi poliziotti privati che ghignavate mentre lo stavate
sgombrando, altezzosi dirigenti di banca che credevate di aver vinto,
stupidi puritani del buon costume che sognavate il vostro ennesimo centro commerciale:

ANDATE TUTTI A FARE IN CULO.

P.S.
Carissimi,
appena potete, andateci, non ve ne pentirete, e magari ci incontreremo pure.

P.S.2
Non finiro’ mai di ringraziare l’amico Cavallino,
che quella volta a Berlimo mi telefono’.
Lui era in bici di fronte al tacheles,
io ero in bici di fronte alla zoostation.

Disse:
“Zac, ho scoperto un posto clamoroso, stasera si va’ li'”.

Grazie ancora, Cavallino, grazie davvero.

INCUBO, di Antonio Tabucchi 1943-2012

In Senza Categoria on marzo 26, 2012 at 6:15 PM

Volevo scrivere di quanto mi addolori la morte di Antonio, ma poi l’Unita’ e’ stata cosi’ cortese da pubblicare un racconto che Tabucchi scrisse nel 2001, che all’epoca lessi e, come molti dei suoi scritti, mi fulmino’.

Ve lo ripropongo.

Premessa del tutto personale e indirizzata solo a una persona:
Caro Maestro, quando ti dico che i tuoi racconti mi fanno letteralmente sobbalzare, intendo esattamente al pari di questo.

INCUBO

di Antonio Tabucchi

Di una cosa ero certo: che io potevo vederli, ma non potevo essere visto. C’era qualcosa che mi
nascondeva al loro sguardo, una sorta di diaframma o di schermo che non riuscivo bene a decifrare,
che mi proteggeva dalla loro vista. Eppure avevo la sensazione di essere esposto in piena luce,
seduto in prima fila, come a teatro. E da quella prima fila potevo osservarli. I loro gesti mi
giungevano nitidi come l’odore che i loro corpi emanavano. Era un odore greve e dolciastro, lo
stesso che avevo avvertito in un anno ormai lontano quando, in un obitorio di una cittadina di un
Paese straniero, ero dovuto andare a riconoscere il cadavere di un mio amico naufragato con la sua
barca. Era uno spettacolo, di questo ero certo. Ma quello spettacolo era rappresentato in tutta la sua
nuda verità, ed era vero perché era più vero del vero.
La scena si svolgeva sulle banchine di un porto di una città mediterranea, illuminata da un sole
meridiano che conferiva alla scena quella luce allarmante che hanno certe fotografie sovraesposte.
Al molo era attraccata una nave d’acciaio, certamente da guerra, misteriosa e minacciosa come la
corazzata di un vecchissimo film. Era ornata da cannoni e da una bandiera di tre colori che garriva
al vento. L’inquietudine si è impadronita di me. Qualcosa di turpe, lo sentivo, stava per succedere. E
percepivo anche che tutto ciò non era reale, era frutto della mia fantasia lasciata allo stato libero
come quando si sogna. Mi sono detto: perché vogliono che io sogni questo sogno? Chi mi obbliga a
sognare? Mi sono detto ancora: devi svegliarti, non puoi tollerare che ti si obblighi a sognare un
sogno che non vuoi sognare, costoro si sono insinuati nella tua anima, vogliono impadronirsi di te.
Mi sono dato un pizzicotto, come si fa per svegliare un dormiente, ma non ho ottenuto nessun
effetto. Dunque non stavo sognando, era vero.
Mi sono rassegnato: lo spettacolo a cui ero invitato non era un mio sogno, era vero davvero. Sul
molo che vedevo dalla mia finestrella, seduto comodamente sulla mia poltrona al riparo da sguardi
indiscreti, è apparso il volto di un uomo con aria trionfale. Un liquido oleoso gli scendeva dai radi
capelli e gli irrorava le guance, rendendolo lustro sotto i raggi di un sole che forse era artificiale.
«Buonasera, ha detto con voce melliflua, sono il dottor Melanoma, ogni mio servizio è un servizio
ai Servizi, e così preferisco chiamarmi per quella natura sarcomatica che vuole la mia funzione di
Officiante, di questa solenne riunione nella quale saranno decise le sorti del nostro villaggio! Il dio
Caprone, di cui siamo gli umili servi, oggi raduna qui le sue folle veneranti. Che la processione
cominci!». A quel punto sono risuonate nell’aria le note di un inno marziale. Un grande coro, anzi,
un vocìo, accompagnava quella musica pomposa. Ma era impossibile distinguere nitidamente tutte
le parole. Si coglievano solo spezzoni qua e là, come sintagmi isolati di una litania: «Guerra, guerra,
guerra». E poi altre parole sussurrate, sillabe alate, incompiute, monche: «Arti amputati… ah, ah,
ah… corpi dilaniati… ah, ah, ah… teste maciullate… ah, ah, ah… sangue, sangue, sangue».
Il corteo è apparso in fondo al molo, avanzando. Lo guidava una sinistra figura che incuteva terrore
nell’aspetto. Era un uomo obeso, dai capelli scarmigliati e le guance arrossate. Il suo ventre enorme
terminava sugli inguini, che poggiavano su una piccola piattaforma di legno sotto la quale erano
state disposte quattro piccole ruote. Quella tavoletta era il suo mezzo di locomozione, che il
grassone guidava e manovrava aiutandosi con le mani sul terreno. Sul suo carrello improvvisato
svettavano due vessilli. Su uno c’era scritto «I combattenti e i reduci delle guerre di civiltà».
Sull’altro, un foglio di carta straccia tutta macchiata, recava la frase: «Gli amici di Adriano». La mia memoria sognante ha associato quel nome a un libro che mi è caro, perché di Adriano
conosco le memorie, ma poi, nell’inconsapevolezza lucida del sogno, ho capito il mio equivoco. Ho
sentito un brivido nella schiena e ho pensato: non si riferiscono a un imperatore, stanno parlando di
un prigioniero, cosa c’entra lui, perché usano il suo nome?, è un innocente condannato a vita, e la
«rogatoria» che lo ha inchiodato, la parola improbabile di un pentito era priva di qualsiasi bollo di
garanzia. E poi ho pensato: vigliacchi, fa comodo a tutti che resti in galera.
Il capogruppo ha estratto da una tasca una bandiera piena di stelle con la quale ha avvolto il suo
moncherone obeso e ha gridato: «Avanti, eroi, per la polvere di stelle!». Dietro di lui avanzava una
figura femminile che gridava come un’erinni: «Sono sua moglie!, sono sua moglie!, noi abbiamo
insegnato agli Italiani, con la verità degli schermi televisivi, come si pratica il sesso». Ho
cominciato ad aver paura. E a quel punto è scoppiata la musica: un’orchestrina di fiati, dietro di lui,
ha intonato un celebre swing: Star dust, polvere di stelle. Ho guardato meglio. Erano dei musicanti
che parevano uscissero da una fiaba dei fratelli Grimm, con un’aria di saltimbanchi pezzenti. Colui
che suonava il trombone era un uomo lungo e allampanato, che negli intervalli del suo fiato
sussurrava rivolto al moncherone: «Sei il più intelligente, per questo noi gente veniamo con te».
Gli altri strumentisti, dotati di flauti, clarinetti, cornette e trombette, avevano tutti decorazioni sul
petto e cartelli infilati nel collo che indicavano le loro alte funzioni. Poi dal gruppo si è staccato un
individuo dall’aria superba e dallo sguardo gelido, vestito con un abito elegantissimo. Si è diretto
verso un uomo vestito di un impermeabile di cuoio nero che li osservava sulla destra del molo e che
teneva in mano una pistola e un rotolo di dollari. «Le ho portato le foto segnaletiche di tutti coloro
che stanno dalla parte del nemico», ha detto in tono beffardo l’uomo dall’elegante vestito grigio,
finalmente questo Paese è libero di denunciare i traditori». Poi si è girato verso il mio punto di
osservazione, e per un attimo ho pensato che si rivolgesse a me, che mi avesse scoperto, anche se
probabilmente si rivolgeva al suo pubblico.
La sua voce, con tono metallico, scandiva frasi pronunciate con una sintassi italiana elementare. «Se
tu mi avessi riconosciuto – ha sibilato – attento a fare il mio nome, sai, potresti ricevere visite nella
tua abitazione, qualche grammo di polverina bianca sparsa qua e là portata dai nostri bravi agenti,
non fare lo sciocco, amico, scrivi romanzi e basta, noi saremo tolleranti se ti comporterai bene».
Dietro di lui venivano altri ometti in doppiopetto. Avevano il volto minaccioso e il braccio steso in
avanti, con il palmo della mano aperto sul quale c’era scritto con l’inchiostro: «Ministro della
Repubblica». Solo a quel punto mi sono accorto che tutti i componenti della processione avevano
delle protesi artificiali: chi con una gamba di legno, chi con delle braccia di metallo, chi, ormai
privo di braccia e gambe, agitava nell’aria con fare esultante arti artificiali di acciaio lucente.
Ciascuno di loro portava sul bavero della giacca un cartellino con scritto «Reduci dalle guerre della
civiltà», mentre un vecchietto bonario, vestito da chierichetto, li benediceva con un aspersorio. E a
quel punto il tronco amputato del grassone ha gridato: «Che il Sabba cominci! Dio salvi la civiltà, la
civiltà che per tutti questi anni abbiamo imposto nel mondo, quella nostra, quella vera, quella per la
quale i nostri servizi si sono adoperati a disprezzo delle proprie vite e soprattutto delle vite altrui,
quelle vite che per fortuna abbiamo rinchiuso negli stadi in Cile e gettato dagli aerei nei mari
dell’Argentina».
La musica è salita di intensità, come colta da una frenesia. Il corteo di sciancati, i poveri reduci da
tante battaglie, che hanno vissuto tutti questi anni nell’indigenza e nella penuria, è finalmente
esploso in una danza carnevalesca animata dall’euforia panica di chi capisce che è ancora vivo, di
chi possiede ancora un sangue robusto che irrora le sue protesi. E mentre il sabba raggiungeva il suo
spasimo in un pandemonio di voci urlanti e di corpi dimenanti, un cane ha furiosamente abbaiato
nelle tenebre che erano cadute sulla scena, ma soprattutto ha attraversato i miei timpani la voce
gracchiante di una strega dal volto incartapecorito e lascivo che gridava con giubilo:
«Abbracciamolo, a prescindere, abbracciamolo, a prescindere». La nausea è stata più forte del sogno, ho avuto un sobbalzo e mi sono svegliato. Era notte fonda, e
dallo schermo del televisore giungeva solo quella polverina elettrica di quando le trasmissioni sono
finite. Ah, era stato solo un incubo, un terribile incubo. Per fortuna mi ero svegliato alla realtà:
intorno a me c’era solo l’Italia di oggi.

Nota A mo’ di autocertificazione (pratica ancora consentita) e prima che lo faccia qualche giornale
in stretto rapporto con i servizi segreti o qualche psicoanalista chiamato da trasmissioni televisive,
vorrei fornire le fonti principali di questo sogno: 1. Retrospettiva Goya, in mostra in questi giorni al
Museo del Prado di Madrid. La mostra riunisce per la prima volta, oltre alle opere del pittore
spagnolo presenti al Prado, numerose opere appartenenti a musei stranieri. Particolare attenzione è
dedicata alle opere più cupe e dissacratorie come I disastri della guerra e i quadri sui roghi
dell’Inquisizione e sui sabba che in quell’epoca popolavano la vita e l’immaginazione delle persone.
2. Francisco Goya, El libro de los Caprichos, a cura di Javier Blas, Josè Manuel Matilla e Josè
Miguel Medrano, Ediciones del Museo del Prado, Madrid 1999 (si tratta della riproduzione in
anastatica, con ampio apparato critico, dei Caprichos di Goya il cui lemma, che si è imposto nel
tempo come emblema, è: «Il sonno della ragione genera mostri»). 3. Carlo Ginzburg, Storia
notturna. Una decifrazione del Sabba, Einaudi 1989. 4. Una trasmissione televisiva di Rai2 dedicata
all’ortopedico italiano Alberto Cairo che da anni opera a Kabul e che finora ha costruito e istallato
nei corpi degli afghani, 40mila protesi di gambe e braccia amputati dalle bombe e dalle mine. 5. Un
talk-show televisivo della Rai in onda tutte le sere. 6. La manifestazione a favore dei
bombardamenti sull’Afghanistan organizzata dal direttore del giornale Il Foglio, Giuliano Ferrara,
con la partecipazione di Silvio Berlusconi e delle forze di governo, e trasmesso in diretta dalla Rai.
7. Svariati telegiornali di Mediaset e della Rai. 8. La grande maggioranza dei quotidiani italiani,
alcuni dei quali sostenuti dal denaro dei contribuenti. 9. Giorgio Boatti, Preferirei di no. La storia
dei dodici professori universitari che si opposero a Mussolini, Einaudi 2001, Mimmo Franzinelli,
Delatori. Spie e confidenti anonimi. L’arma segreta del regime fascista, Mondadori 2001. 10. La
bozza di progetto di uno stato poliziesco elaborata recentemente dal ministro Frattini. 11. Il nostro
inconscio, al quale il governo Berlusconi non ha ancora esteso alcuna legge.
(copyright l’Unità e El País Internacional).
8 dicembre 2001

Buona visione

In Senza Categoria on gennaio 10, 2012 at 5:30 PM

Il tesoriere dei celtici ha investito circa dieci milioni di euro in Tanzania, dove, e’ noto, gli abitanti sono tutti biondi, occhi azzurri, profilo ariano, accento bergamasco.

Stracazzi loro.

Oggi scrivo di arte.

La prima opera d’arte che ricordo di aver amato e’ 
“La Passeggiata” di Manet, una stampa della quale stava appesa a casa di mia nonna.
Avevo cinque anni, e quel campo con la dama che passeggia armata di ombrellino parasole mi piaceva, mi abbracciava.

L’ultima opera d’arte che ho amato, nella spasmodica attesa della prossima, e’  

“Giovane triste in treno” di Duchamp, che mi ha paralizzato per diversi minuti all’interno del Gugghenheim di Venezia.

In mezzo ci sono quasi quarant’anni di “visioni”.

Si va’ dalla “Ronda dei prigionieri” di Van Gogh, tela che ti fa’ piangere anche se non vuoi, alla

 “Bevitrice di assenzio” di Picasso, capolavoro della solitudine e della tristezza consapevole di parte dell’universo femminile.

E poi, guardatevi “La Danza” di Matisse, impossibile non essere spinti a un movimento roteatorio.

“Le Mont Saint Victoire” di Cezanne, inizio di quella forma d’arte, forse la mia preferita, che tende ad esplorare il subconscio a scapito della rappresentazione figurativa.

“Composizione nr 8” di Kandinsky capolavoro dell’astrattismo geometrico, dove la “violenza con la quale un triangolo penetra una forma circolare non trova paragoni” come soleva sostenere il maestro.

L” Ingresso solenne del conte di Gergy a Palazzo Ducale”del Canaletto, dove anche il minimo particolare e’ curato come il soggetto protagonista.

Ecco, ora non mi fermo più.

“Les Demoiselles d’Avignon”, molti erroneamente credono che si tratti davvero di signore, ma l’intento di Picasso e’ raffigurare un gruppo di prostitute di Barcellona.
Quando fu’ esposto, il critico d’arte Guillerme Apollinare ebbe a dire:
“Prima o poi troveremo questo pazzo impiccato sotto a un ponte della Senna.
Mori’ molto prima il critico.

“Number 1”  di Pollock, l’immenso Pollock, strati di colore gettati dall’alto su una tela appoggiata a terra, a prima vista, per i profani, degli scarabocchi, ma se uno ci entra dentro, si possono trovare almeno una decina di universi paralleli.

“Emerging ’82” di Vedova, il pazzo che urlava la sua rabbia con un’intensita’ pari a un ordigno atomico, il professore che insegnava a Ca’ Foscari e poi dipingeva in un tugurio, scuro, umido, infernale, uno tra i miei pittori italiani preferiti.

“DemoCrazy” di Vezzoli, e’ un video, la Stone e B.H.Levy in un surreale comizio pre elettorale.
Per i pochi che ancora non conoscono Francesco Vezzoli, ve ne sollecito un approfondimento, e’ l’artista del ricamo, un genio.

“David con la testa di Golia” del Caravaggio, le parole sarebbero sprecate.

“I mangiatori di patate” di Van Gogh, 
la lampada e’ la chiave, senza di essa la tela sarebbe nera, così da dare un’importanza basilare alla luce.

“Ceci n’est pas une pipe” di Magritte.

“Creek” di Rauschemberg.

“La Famiglia” di De Chirico.

“Donna con ventaglio” di Modigliani.

“Papa Cattelan” del medesimo.

“Guernica”.

Guernica e’ un’opera che mi ha sempre messo i brividi, sia per quello che rappresenta, sia per le tonalità di grigio che la compongono.

Durante il nazismo un plotone si presento’ a casa del Maestro per requisire la tela.

Il tenente tedesco chiese:

“E’ stato lei, herr Picasso, a fare questo quadro?”

“No, siete stati voi”.

Non lo sequestrarono.

Fine.

Si potrebbe obiettare che questo post andrebbe correlato con le immagini.

Troppo facile.

L’arte va’ cercata, scovata.

Credo che a nessuno di voi abbia mai suonato il campanello Francesco Clemente con una tela da mostrarvi.

Buona visione.

Feliz cumpleaños, Luis Sepulveda.

In Senza Categoria on ottobre 4, 2011 at 2:49 PM

“Ti vogliamo tutti bene, Fortunata.
 E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. 
Non ti abbiamo contradetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa.
 Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. 
Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. 
Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. 
Ti vogliamo gabbiana.
 Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso.
 È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. 
Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. 
Devi volare. 
Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.”

Oggi e’ il 4 ottobre, e nello stesso giorno del 1949 nacque l’autore di questi versi, tratti da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegno’ a volare”, che i più, voglio sperare, abbiano letto.

Caro Luis, 
buon compleanno.

Una volta, presso un’aula dell’università di Venezia, Luis ci parlo’ del suo Cile, quel meraviglioso paese che la CIA e la merda Pinochet gli avevano rubato.
C’era anche sua moglie, una donna incredibile, pensate che la trovo’ un operaio di una discarica di Santiago, in mezzo a cumuli di sporcizia, i torturatori del boia la credevano morta e l’avevano gettata nella pattumiera.
Pesava neanche quaranta chili.

In quell’aula ero tra i più vecchi, assieme a Luis e Gianni Mina’.
Contornato da studenti seduti a terra.
Comincio’ alle 16.
Verso le 21 Mina’ disse ad alta voce:
“Scusatemi, ma Luis deve venire via, e’ in giuria alla mostra del cinema e lo
stanno aspettando”.

A quel punto Luis si impossesso’ del microfono, e senza batter ciglio disse:

“Sono qui con tutti questi compagni,
non mi sogno di lasciare quest’aula per nulla al mondo”

Fu’ un tripudio, tutti a spellersi le mani, e Luis si accese la centesima sigaretta, continuo’ a raccontare l’indicibile, degli amici che non c’erano più, delle lotte combattute e mai vinte, delle speranze di un intero continente, esiliato per volere altrui.

Buon compleanno, Luis.

Sempre il 4 ottobre, del 1970, mori’ una donna superlativa, Janis, una con le palle quadre.

Mi piace ricordarla con una delle sue frasi più famose:

“Sul palco faccio l’amore con 25mila persona.
Poi torno a casa, sola.”

C’è un filo sottile che accomuna Fortunata, la gabbianella, e Janis, la cantante, e’ il filo di chi passa in questo mondo e ci lascia un segno indelebile, 
un segno che si chiama uguaglianza.

Sniff.

Cazzo.

In Senza Categoria on settembre 21, 2011 at 2:53 PM

La politica non c’entra.

Io i libri li divoro, mi ci ficco dentro con tutto il corpo.

Non li ho mai contati, ma ne ho letti una valanga.

Difficile dire quale sia il libro che mi ha traviato maggiormente, potrei azzardarmi sugli autori, e anche li’ sono una schiera indicibile.

Provo un amore fraterno per
“La versione di Barney”, del compianto Richler, ma non e’ di questo che scriverò.

Giorni orsono, frugando fra il mio ordine sparso, mi sono imbattuto, ancora una volta, sul masterpiece, sul libro che lessi per la prima volta quando usci’ in Italia, e da allora mi corre dietro ciclicamente.

Titolo:

“A Sud di nessun Nord”

Autore:

Lui, Henry “Hank” “Chinasky” Charles Bukowsky.

E’ l’unico libro che ho letto più di una volta.

Sprezzante, deleterio, a tratti apocalittico, umano, vomitevole, spaventoso, tenerissimo, un manifesto dell’essenza umana quando quest’ultima sta per franare nel buio, e che, poco prima della fine annunciata, si rimette a camminare con le stesse, se non peggiori, prerogative di un secondo prima.

Hank, maledetto filibustiere, ho passato migliaia di ore a leggerti, e ogni volta pensavo “Questo muore oggi”.
No.
Il poeta e’ schiattato a 74 primavere, nel ’94, ma se si guardasse al suo stile di vita, qualsiasi altro essere umano ne avrebbe passate una trentina, non di più.

Se “A Sud di nessun Nord” fosse un dipinto, sarebbe l’Urlo di Munch.

Beccatevi queste poche righe:

“Come può dirvi chiunque, non sono un tipo molto gradevole.
Non so nemmeno cosa voglia dire.
Ho sempre ammirato i cattivi, i fuorilegge, i figli di puttana.
Non mi piacciono gli uomini perfettamente rasati, con la cravatta e un buon lavoro.
Mi piacciono i disperati, con i denti rotti, il cervello a pezzi e una vita da schifo.
Sono loro che mi interessano.
Sono pieni di sorprese.
Ho anche un debole per le donnacce, quelle che si ubriacano e bestemmiano, che hanno le calze molli e il trucco sbavato.
Mi interessano più i pervertiti dei santi.
Mi rilasso con gli scoppiati perché anch’io sono uno scoppiato.
Non mi vanno le leggi, la morale, la religione, le regole.
Non mi va’ di essere plasmato dalla società.”

Va’ da se’ che non e’ possibile riconoscersi in questo breve ritratto, ma il sangue grondante che trasmette lascia con l’amaro in bocca, ti viene voglia di disfarti di tutti gli stereotipi e di tutti gli insegnamenti, di mandare a fare in culo qualsivoglia abitudine, di fare un falò con tutte le puttanate che sorreggono la cosiddetta “società civile”.

Poi chiudo il libro, respiro a fondo, e per non pensarci butto su un risottino, oppure butto su una tela una dose massiccia di colore.

E’ così che mi passa.

Maledetto Chinasky.

“Valdagno, Arizona”

In Senza Categoria on agosto 28, 2011 at 9:09 am

Carissime lettrici.
Illustri lettori.

E’ con enorme piacere che mi permetto di invitarvi, il 9 settembre anno corrente, presso il Lido di Venezia, e più precisamente al Festival del Cinema, sezione Giornate degli Autori, presso la Pagoda dell’Hotel Des Bains, alle 21,30, dove potrete assistere alla prima mondiale del docufilm

“Valdagno, Arizona”

nel quale mi sento onorato di essere presente in un paio di spezzoni.

Accorrete numerosi.

Per ogni delucidazione mandatemi un email a zacforever@libero.it

Astenersi leghisti, pidiellini,  fascistelli e pretacci vari.

Vs.
Zac

Seguirà ottimo concerto dei nativi americani con danze annesse.